Newsletter 29: “I 3 del mese”
3 marzo 2013: Le ali
della libertà
Sono le 8 del mattino quando vengono a chiamarmi al
cancello, quattro adolescenti 15enni della parrocchia. Sono stranamente
puntuali: forse anche loro sono agitati per l’esperienza che andranno a vivere
oggi. Per strada raccogliamo il resto del gruppo: siamo in 14 divisi su due
macchine. Oggi andiamo a visitare il CJE (Centro Gioventù Speranza) nel
quartiere vicino al nostro (Maiobinha). Qui lo definiscono un centro di
recupero per minori che hanno commesso crimini: di fatto è un carcere minorile
(con 16 ospiti, o meglio detenuti, in questo periodo). E le prime immagini che
vediamo lo dimostrano: celle con finestre e porte inferriate e grossi catenacci
arrugginiti con lucchetti.
Non è un luogo nuovo per me, ma per la maggior
parte del nostro gruppo, tra i 15 e i 21 anni di età, questa é la prima volta
dentro a quelle mura. E la sensazione iniziale, la stessa che ho provato io
all’inizio, è la paura! Le celle sono chiuse, vedi solo mani, senti odori
cattivi, ascolti grida o il suono di calci e pugni alle grate di ferro. Non ci
sono vigili armati, ma operatori: una ragazza, un paio di uomini, il signore
delle pulizie.
Dividiamo il gruppo in due e noi entriamo nella
prima delle ali del Centro. Dopo un lungo corridoio, ci si presenta davanti l’ala
C, quella dei crimini peggiori: stupro e omicidio. L’immagine che si presenta è
quella di un piazzale quadrato, con una decina di celle tutte intorno. Ci sono
solo 3 ospiti oggi in quest’ala. Quello che è importante e che abbiamo
sottolineato anche ai nostri adolescenti è: “abbiamo davanti persone, non criminali.
Persone che spesso non hanno una famiglia alle spalle, ragazzini che hanno
bisogno di compagnia, di dialogare, di “amici”. Non giudichiamoli, non facciamo
domande sul perché sono dietro le sbarre, chiacchieriamo come fossimo ad un
gruppo adolescenti della parrocchia”.
Non si possono far foto, anche se con il cellulare
qualcosa riesco a immortalare.
Le celle sono quadrate: 3 metri per 3. Dentro c’è
una finestra, la forma di un letto in cemento con sopra un materassino, una
mensola, un muretto in un angolo dietro al quale si nascondono un water o un
buco che funge come tale e una doccia. Qualcuno ha abbellito la propria “casa”
con disegni sui muri, qualche foto di signorine avvenenti, l’immagine di Gesú.
I più fortunati hanno anche un piccolo stereo per ascoltare la musica.
Paura. Dicevamo che il primo sentimento che provi é
quello. Sí, perché l’ambiente non è ospitale, perché i ragazzi commentano il
tuo passaggio a voce alta. Per terra ci sono pezzi di pane, la tettoia ha
qualche buco e l’eco di una goccia in una pozzanghera in un luogo così, non
lascia rilassati. Arriviamo alla cella di Pablo, 17 anni, di Imperatriz. È
felice di vederci, parliamo con lui: «sono stanco di stare qui, ho solo Dio che
mi fa compagnia! Lá fuori ero evangelico, qui dentro non so cosa sono: credo in
Dio e questo basta. Anche perché é lui che mi dá quella parola che tanto mi
manca: libertà! Queste mura, queste sbarre sono materiali e so che un giorno
cadranno. Ma dentro il cuore non ci sono barriere e Dio mi rende libero. Un
sogno? Uscire da qui a testa alta e fare un corso per poter lavorare. Finora sono
uscito 9 volte, ma sempre come fuggitivo! Eh eh! È facile scappare qui: quando
vai a pranzo, corri nel prato, prendi un palo, un bastone e fai paura agli
operatori. E poi fai un buco nel muro di cinta: è facile rompere questo muro, è
vecchio e fatto male e in un attimo sei in strada. So che la mia pena di
allunga se fuggo e mi riprendono, ma con quello che ho fatto so già che la mia
pena è molto lunga lo stesso!». Cantiamo con lui, diciamo un Padre Nostro e
andiamo qualche cella più in là. Fabiano ha 17 anni, di São Luis. «Ero
evangelico e andavo in chiesa. Poi ho trovato una donna. Spacciatrice. E sono
uscito dalla chiesa ed eccomi qui. Ma Dio non è uscito dalla mia vita. Anche se
in questo posto è il diavolo a farla da padrone. Sono più di 2 anni che sono
qui, ma sono già fuggito decine di volte. All’ultima però ho capito che più
fuggo, più aumenta la mia pena se mi prendono, cosí mi sono riconsegnato da
solo alla polizia. Adesso è 9 mesi che non scappo, anche se però ho partecipato
ad una rivolta che di certo non mi aiuta di fronte al giudice. Perché nella
rivolta? Perché qui dentro o fai quello che gli altri detenuti organizzano o ti
fracassano la testa. Ho dovuto partecipare». Altra canzone, altra preghiera,
altra storia. Incontriamo Fernando di Raposa, arrestato 13enne, oggi ne ha 15 di
anni. Taciturno, timido, chiede una canzone reggae che gli suoniamo e cantiamo.
«Non ricevo mai visite, solo a volte la moglie di mio padre. Sono stato bravo
in questi ultimi mesi e mi hanno promesso che uscirò a breve. Il giudice doveva
firmare la mia libertà prima del carnevale, ma poi tra feste e ferie, non è
ancora tornato. Lo sto aspettando», ma l’impressione è che tra 15 giorni quando
torneremo, troveremo Fernando ancora là.
Ci trasferiamo. Andiamo nell’ala B, quella dei
crimini minori, come furto e spaccio. I ragazzi sono tutti in palestra per
giocare una partita di calcio a 5 contro gli operatori del Centro. C’è solo una
cella chiusa, quella di Tailson, 16enne di São Luis, in castigo per qualche
comportamento sbagliato. Tailson è infuriato e le parolacce abbondano: «Qua
dentro è uno schifo! E se esco? Peggio! Sono fuggito varie volte, ma io sono
cresciuto in un bar tra droga e donne. Cosa faccio fuori? E poi il giudice non
mi vuole fuori, è inutile pensarci! Ho capito che è il diavolo a comandare, ma
io non voglio. Da giovane (oggi ha 16
anni!) mi ero tatuato la faccia di satana gigante sulla schiena (e ce la mostra), ma adesso ho capito che
non vale la pena. Il diavolo è compagno del crimine e il crimine non porta a
nulla: è solo illusione! Il crimine porta alla tristezza, a un posto schifoso
come questo, a odiare tutto. Speranze? Nessuna! Adesso lascio passare qualche
settimana perché magari il giudice cambia idea, ma poi, se tutto resta cosi,
scappo. Vado a Salvador de Bahia, in un altro stato, cosí nessuno mi conosce e
non mi catturano più. Andró ad abitare in strada o in favela là, tanto non è peggio della situazione che ho qui in São
Luis. Intanto, se potete, mi trovate qualcuno che mi faccia le treccine?».
Cantiamo e poi Tailson ci chiede di recitare il Padre Nostro per mano. Io sono
alla sua destra, gli dó la mano e lui la tira dentro la cella, come quella del mio
dirimpettaio a sinistra. «È inutile che recitiamo una preghiera con le vostre e
le mie mani fuori dalla cella! È qui dentro che serve, è dentro queste grate
che non c’è Dio!». È stato uno dei Padre Nostri più intensi che io abbia mai
recitato...
Usciamo. Incontriamo l’altro gruppo di amici e
torniamo alle macchine. Pensierosi, ma felici. E consapevoli di quanto sia
bella la parola libertà. Torneremo tra 15 giorni con chissà quante altre storie
da ascoltare...
Ciao a tutti! Noi
stiamo benone e vi ringraziamo per le mail che arrivano ancora, nonostante
siano passati più di 2 anni dalla nostra partenza.
Buona Quaresima a
tutti! Un abraço!
Chicca
Damiano Isacco
Un paio foto...
Isi e le splendide figlie di Hilneth: Cristiane,
Clara, Cristine e Caroline
Carnevale 2013 con i giovani della Parrocchia
CIAO A TUTTI!!